Vincenzo Romano un parroco sugli altari – Pastore del gregge a lui affidato

Proseguiamo la biografia del nostro Parroco Santo di Torre del Greco (Napoli) San Vincenzo Romano per conoscerlo meglio.

Tratta da uno scritto del monsignor Salvatore Garofalo, che fù il postulatore della Beatificazione del parroco di Santa Croce  nel 1963 e che divideremo in più parti per agevolare una piacevole lettura.

Vincenzo Romano un parroco sugli altari” – Salvatore Garofalo :

PARROCO DI TORRE DEL GRECO

Nel settembre del 1799 moriva, a ottantanove anni, don Gennaro Falanga parroco di Santa Croce e Preposito Curato nella nuova Collegiata. Pochi giorni dopo, i governatori laici della chiesa, avvalendosi di un loro diritto, presentavano all’Arcivescovo come candidato alla successione don Vincenzo Romano. La designazione fu unanime; per salvare le debite forme, erano stati messi in lista altri due candidati, i quali però si ritirarono spontaneamente, riconoscendosi per meriti e virtù inferiori al canonico Romano. Vincenzo s’era già proposto di ritirarsi dalla cura parrocchiale appena fosse stato nominato il nuovo parroco, e quando seppe della proposta dei governatori, ricorse ai buoni uffici di un sacerdote amico per convincerli   a  desistere,  ma  gli   amministratori e «quasi tutte le famiglie di Torre» insistevano con San Vincenzo Romano perché dicesse sì. Qualcuno gli fece anche presente che sarebbe stato un disonore per lui, già Economo Curato, farsi sopravanzare da un altro, ma egli rispose: «Meglio mi contento di aver del disonore che andare all’inferno». Quand’era giovane sacerdote aveva detto a un chierico: «Se qualcuno volesse mandarmi un’imprecazione, dovrebbe dirmi: ti possa

veder parroco!». Naturalmente, egli non intendeva dire che è sciagura grande essere parroco, ma misurava col metro dell’umiltà gli oneri e gli onori, confrontandoli con la propria pochezza.

Anche questa volta fu necessario che il Cardinale gli imponesse di ubbidire, e quando Vincenzo tornò a casa, disse al fratello Giuseppe: «Se anche mi avrebbe precettato di andare alla forca, l’avrei ubbidito». Fino alla fine dei suoi giorni Vincenzo continuò a riflettere sui suoi formidabili doveri: «Ho accettato la cura delle anime in virtù di santa obbedienza, per non commettere un aperto peccato grave; avrei voluto piuttosto la morte, che aggravarmi di questo sì pericoloso peso della cura delle anime. Questa carica non si può accettare né per onore né per interesse o altro fine, ma soltanto per volontà di Dio, il quale come assoluto Padrone esige questo servizio da me».

Il 29 dicembre 1799 Vincenzo prese canonico possesso della parrocchia. Durante la cerimonia fu visto accigliato e dispiacente, pensieroso e piuttosto afflitto, mentre intorno a lui un popolo intero era in festa. Alcuni giorni dopo, a chi gli chiedeva con una punta di sorridente malizia come si trovasse sotto la “cappa magna” di Preposito Curato, rispose: «Camminiamo sopra l’acqua, come San Pietro», alludendo all’episodio evangelico in cui l’apostolo, invitato da Gesù a raggiungerlo camminando sulle acque del lago di Tiberiade, ebbe un attimo di paura e stava per affondare se il Maestro non gli avesse teso la mano. La preghiera quotidiana del parroco Romano era:

«Signore, niente posso, niente sono, niente so, la Cura è vostra; nella vostra parola, come San Pietro, mi getto in questo mare […]. O Gesù: io sono l’asinello sotto di voi, voi guidatemi, voi tiratemi, voi regolatemi».

TUTTO PER LE ANIME

Superato il primo sbalordimento e sconforto, la «pecora stizzita» del Seminario di Napoli diventò, come dice un testimone, «un cavallo sfrenato». Fino alla morte non ebbe per sé una sola giornata di riposo e lasciò il suo gregge per poche ore soltanto, quando doveva recarsi in Curia per gli affari di parrocchia. Anche allora, non c’era verso di farlo fermare a Napoli neanche quando perdeva il calesse che doveva, per dodici chilometri, ricondurlo a Torre; preferiva fare a piedi il cammino per poter essere nella nottata a casa. Perfino nelle campagne prossime a Torre si recava soltanto se era necessario per adempiere i suoi doveri verso le anime a lui affidate. Accettava di sedere a mensa solo con i sacerdoti e, per dovere di gratitudine e di riverenza, faceva compagnia all’Arcivescovo il quale, quando era in villeggiatura, spesso lo invitava a pranzo. Anche allora, però, poteva accadere che Sua Eminenza lo aspettasse invano: il Preposito si scusava con garbo di essere stato impedito dall’assistenza a un moribondo.

Si levava all’alba e con una sottana tutta pezze ma nettissima, il cappello di ruvida lana a falde lunghe in testa, calzando pesanti scarpe con una fibbiuccia di ferro, percorreva il brevissimo cammino che divideva casa sua dalla chiesa. Dopo aver preparato tutto il necessario con grandissima cura, celebrava la Messa sottolineando con la voce le parole più belle del Messale e alcune invocazioni del Pater. Spesso non riusciva a trattenere le lacrime durante la Consacrazione. Una tazzina di «caffè di bottega», un intruglio che del caffè conservava un lontano ricordo, era tutto il suo sostentamento fino all’ora di pranzo. Il tempo lasciatogli libero dalle udienze dei fedeli, specialmente dei poveri, e dagli affari di Parrocchia lo trascorreva inginocchiato dinanzi all’altare del SS. Sacramento. Il Preposito di Torre praticamente non aveva orario, perché in chiesa, in casa, in strada, c’era sempre qualcuno che aveva urgente bisogno di lui e non poteva disporre di ore comode. Mangiava poco e preferiva i legumi perché, diceva, sono figlio di un povero contadino.

Nel tempo di Quaresima, gli bastavano per cena alcuni agli abbrustoliti sotto la cenere o pochi fichi secchi. Nel napoletano, il riposo del pomeriggio è quasi un rito, ma San Vincenzo Romano vi ricorreva solo nelle grandi occasioni, quando, per esempio, le tradizionali feste e processioni di Torre gli richiedevano una lunga fatica. Ritornato nel primo pomeriggio in parrocchia, divideva ancora le ore tra la stanza in sagrestia e l’altare del Sacramento, se non era impegnato a confessare gli uomini. Rubava le ore alla notte per alimentare il suo spirito con la preghiera, la lettura spirituale o lo studio. In tutto dormiva tre o quattro ore d’estate e cinque d’inverno.

OPERAIO NELLA VIGNA DI DIO

Abbiamo visto come San Vincenzo Romano si ritenesse un operaio che non aveva il diritto di defraudare neppure di un’ora il suo Padrone. Tutti gli uomini nascono al servizio di Dio, per la sua gloria e per la propria salvezza e felicità, perciò il Parroco di Torre procurò ai suoi figliani occasioni di servire con fedeltà e gioia il Signore e per imparare a conoscere in lui il Padre celeste.

La domenica era, come per ogni parroco, una giornata pienissima per Vincenzo. Per il pubblico della prima Messa, che veniva celebrata all’alba ed era affollata dai poveri che non avevano il coraggio di mostrarsi alla vista degli altri, dagli operai e dalla gente di campagna, aveva introdotto la Messa pratica. Dal pulpito, il Preposito suggeriva pensieri, preghiere e affetti che disponevano i fedeli ad assistere con devozione e con frutto al Divin Sacrificio. A tale scopo, egli aveva raccolto in un quadernetto il materiale opportuno; più tardi, nel 1820, per l’insistenza di degnissimi sacerdoti, si rassegnò a pubblicare un volumetto in cui, oltre alla Messa pratica, si trovava un Rosario meditato per il popolo che, diceva l’Arcivescovo, «sarebbe piaciuto a Mons. de Liguori», cioè a Sant’Alfonso.

Celebrava la sua Messa festiva verso le nove e vi teneva una lunga omelia. Nel primo pomeriggio era l’ora della «sua privativa»: il catechismo ai poveri, concluso dalla recita degli atti cristiani, dalla benedizione col Crocifisso e dalla distribuzione dell’elemosina. Una volta che il Cardinale Ruffo Scilla sorprese il Preposito tra i suoi poveri, esclamò: «Mi sembra San Vincenzo de Paoli!». Dopo aver cantato i vespri in coro con la Collegiata, San Vincenzo Romano teneva ancora una lunga istruzione al popolo, prima d’impartire la benedizione eucaristica, e a tarda sera faceva un giro tra le “Cappelle serotine”, dove erano raccolti giovani e uomini. Ogni settimana, il sabato, si teneva il Rosario predicato. Il succo dei pensieri proposti da Romano al suo gregge si trova appunto nel libretto al quale abbiamo accennato sopra.

Il primo lunedì del mese San Vincenzo Romano raccoglieva tutti i sacerdoti per una giornata di ritiro, che doveva predicare lui stesso se non voleva proteste: «Vogliamo assolutamente che voi ci facciate questa predica – dicevano i sacerdoti – diteci quel che volete, noi siamo contenti; se verrà un altro sacerdote a predicare non verremo al ritiro». Un affettuoso ricatto, al quale il Preposito cedeva sempre. Il gruppo più cospicuo dei suoi manoscritti è costituito da una trentina di fascicoli contenenti le prediche al Clero, lucidissime e piene di citazioni dalla Bibbia, dai Santi Padri, dai Concili e dai più celebri teologi e autori ascetici, in appoggio ad argomenti che miravano sempre al sodo. Istituì anche ritiri particolari, specializzati come oggi si dice, per le madri di famiglia e per le “monache di casa”, come erano allora chiamate le pie donne che si consacravano al Signore e vestivano anche un abito religioso, ma non abitavano in convento. Agli uomini e ai giovani provvedevano le Congreghe.

Ogni venticinque del mese, San Vincenzo Romano aveva caro che il popolo lo dedicasse al mistero dell’Incarnazione e della nascita di Gesù e lo preparava con prediche spiranti particolare tenerezza. Fra la predicazione quaresimale e del tempo d’avvento, le novene, gli ottavari, i tridui…, pochi giorni soltanto nell’anno erano vuoti di predicazione e i contemporanei si meravigliavano come San Vincenzo Romano «potesse sostenere l’enorme peso di queste continue fatiche; ed è da notarsi che non si dimostrò mai stanco in mezzo a tante occupazioni». Introdusse in parrocchia anche la Via Crucis solenne e la pratica delle Tre ore di agonia: dal mezzogiorno alle tre del venerdì santo, i fedeli affollavano Santa Croce per ascoltare dal Preposito il commento alle sette parole di Gesù in Croce. La solennità del Corpus Domini è festeggiata tuttora a Torre in modo assolutamente caratteristico, con l’erezione nelle principali strade del paese di grandiosi “altari”, che sono elaborate architetture in muratura o dipinte su tela, con illuminazioni diverse ogni anno e per ogni strada, con artistici “tappeti” di fiori nelle chiese.

Lo scopo principale di tutte le pie pratiche era per Vincenzo quello di attirare i fedeli alla partecipazione al convito eucaristico con comunioni generali, alle quali egli stesso preparava con grande cura i suoi figliani. A proposito di pie associazioni, è da notare che San Vincenzo Romano fu il primo iscritto torrese all’Aggregazione del Santissimo Cuore di Gesù, e quando inaugurò l’associazione nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, «nel contemplare l’immagine del Sacro Cuore e divenuto esso una fiamma, perdette i sensi e rimase in contemplazione quasi creduto morto», secondo quanto attesta il Rettore della chiesa, testimone oculare.

BOCCA DI PARADISO

Vincenzo fu, come fu detto degli apostoli di Gesù, un «servitore della parola» (At 1,2). «Aveva sempre la bocca aperta per annunziare la parola di Dio a tutto il popolo», affermano i testimoni della sua vita. Egli era solito ripetere: «La parola di Dio è quella prodigiosa semenza che produce buona vita, buona morte e il paradiso», e la paragonava a una fontana da lasciare sempre aperta per il beneficio delle anime.

Nel ’700 ci furono predicatori ricchi di parole, ma vuoti di contenuto e tronfi, ma quello fu anche il secolo in cui la predicazione popolare ebbe i più grandi modelli come, per le provincie meridionali, il gesuita San Francesco de Gironimo, il francescano San Leonardo da Porto Maurizio e, primo fra tutti,

Sant’Alfonso.

A San Vincenzo Romano importava che la predicazione fosse illuminazione dell’intelligenza: «Spiegava i misteri della dottrina cattolica con tanta chiarezza e convinzione di animo che gli si leggeva in faccia il gusto del suo spirito nel prestare ai suoi figliani questo pascolo di salute». «Sminuzzava con limpida precisione la dottrina» ed era «semplice e niente affatto affettato, sentenzioso nei concetti, zelante nel porgere […], pieno di sodi argomenti, senza apparato di parole gonfie, inutili, offensive, ma dirette solamente a istruire e a convertire i cuori […]. Si adattava alla capacità di tutti, in modo che i rozzi capivano e gli intelligenti vi trovavano del piacere».

Le sue idee erano penetrate e penetranti, i suoi pensieri sofferti, i suoi sentimenti veraci e scoperti, e lo spirito soprannaturale lo animava tutto. La sua intima partecipazione agli argomenti trattati gli strappava spesso lacrime spontanee, che asciugava furtivamente, e in alcune occasioni, come nel giovedì e nel venerdì santo, il suo fervore era tale che un medico afferma d’aver visto il suo volto risplendere:

«Io vedevo nel suo volto ringiovanito quasi un lucido sotto la pelle, tutto differente da quando lo avevo veduto prima, entrando in chiesa».

Un suo intercalare notissimo a tutti era: «Fede viva, fede viva»; la sua predicazione mirava a far praticare la verità ai fedeli, con la partecipazione ai sacramenti. Ai sacerdoti raccomandava, in un tempo in cui nel regno delle Due Sicilie serpeggiavano gli errori, di custodire la fede del popolo nella verità insegnate dalla Chiesa e di essere a tutti di esempio nell’attaccamento a essa. Quasi sempre tirava in lungo le prediche, fino al punto da dover essere avvertito di concludere («Non la finiva mai quando parlava di Dio») e si scusava dicendo di non accorgersene, trascinato dall’argomento e dall’ispirazione. In realtà, egli voleva, specialmente nei giorni festivi, trattenere il popolo in chiesa il più a lungo possibile per fargli degnamente santificare il tempo che dev’essere dedicato al Signore. A Torre, inoltre, la quasi totalità della popolazione maschile era impegnata per nove mesi all’anno nella pesca del corallo in mari lontani, ed era perciò necessario tenere sott’occhio le famiglie prive del loro capo e che avevano tutto il tempo da impiegare nei doveri cristiani.

AMMINISTRATORE DELLA CASA DI DIO

La parrocchia di Santa Croce, sotto il governo di San Vincenzo Romano , diventò un modello di organizzazione per ciò che riguarda la preparazione e la partecipazione del popolo ai sacramenti, che sono i canali della grazia. Il battesimo veniva amministrato lo stesso giorno della nascita. In occasione del precetto pasquale, si teneva l’elenco accurato di tutti coloro che vi erano obbligati e ai quali veniva consegnata una scheda, che serviva poi per verificare le eventuali assenze; il Preposito faceva il giro di tutte le strade, casa per casa, per invitare i ritardatari e convincere i recalcitranti. Nel ministero delle confessioni era tutto «carità e pazienza, pazienza e carità» e la sua regola era che «quando si dà l’assoluzione, l’anima assolta dovrebbe andare subito in paradiso». Con i penitenti seguiva «la via di mezzo tra il sommo rigore e la colpevole condiscendenza»; il suo confessionale era affollato più di uomini che di donne ed egli poteva dire che molti operai suoi penitenti facevano la comunione ogni domenica.

Aveva una cura scrupolosa degli infermi e dei moribondi, incaricando a loro beneficio il maggior numero possibile di sacerdoti e riservando a sé gli ammalati più difficili o più ripugnanti. In un paese di marinai, accadeva spesso di avere qualcuno di essi che aveva contratto in lontani paesi pericolosissime malattie e nessuno, nemmeno la polizia, poteva trattenere il parroco dal precipitarsi presso di loro per portare a essi il soccorso consolatore della fede.

Il suo medico curante diceva di lui che «era un leone per la gloria di Dio», perché nessuno riusciva a contenere il suo zelo quando si trattava di eliminare gli scandali. Era solito dire che il Nemico di Dio si contenta anche di poco se non può guadagnare del tutto un’anima, e così anche chi non può fare molto per il Signore deve fare tutto quello che può, senza desistere né scoraggiarsi. Nei casi più ribelli ricorreva anche alle maggiori autorità ecclesiastiche e al sindaco del paese, ricordandogli che, come “padre” della sua popolazione, era tenuto a intervenire anche per la salute spirituale dei torresi quando, con i suoi poteri, era in grado di reprimere l’immoralità. Allo scopo di richiamare le anime sulla retta via scriveva frequentissime, paterne e pressanti lettere, alcune delle quali sono ancora conservate fra i suoi manoscritti.

I divertimenti allora erano piuttosto semplici se li paragoniamo con quelli del nostro tempo, ma esaurivano egualmente tutta la voglia di sfrenarsi che si annida nell’uomo e scatenavano sentimenti elementari in un popolo fervido, perciò Romano, durante il carnevale specialmente, si batteva contro le mascherate, i teatri e i balli che, dicono i contemporanei, «nel modo con cui si eseguono a Napoli non possono essere liberi da immoralità e da peccati». Dove non riusciva con gli ammonimenti, interveniva col danaro e pagava attori e giocolieri perché abbandonassero la piazza di Torre, lasciando in pace le sue anime.

Buon cammino con San Vincenzo Romano